West Side Story: storia di un’oliva taggiasca
Al Frantoio Nuvolone di Taggia ci hanno raccontato come un’oliva taggiasca si trasforma in prezioso olio extravergine Questa è la storia di un’oliva. Una piccola, simpatica, affabile oliva taggiasca. Un po’ selvatica, acidula, a volte, ma genuina: c’è da fidarsi. Se ne sta, insieme a tante altre, appesa ad un ulivo in Valle Argentina, nel Far West della Liguria. È lì che vive la maggior parte di loro, le olive taggiasche, da almeno 1500 anni, da quando, cioè, i monaci cistercensi dell’isola di Lerino, in Provenza, selezionarono e impiantarono questa cultivar, cioè la varietà, proprio in quel di Taggia. Allora, pensate, il famoso “ponte romano”, c’era già: se non tutte, almeno qualcuna delle sue 16 arcate. Come tutte, la nostra oliva ha atteso l’autunno per cambiare colore e mettere il vestito buono – quello scuro – per venire giù in paese. A Taggia, per tutto ottobre, fino a novembre (ma in qualche caso anche più in là), la gente sale ansiosa e un po’ orgogliosa a tra le olive. Ne incide una con il pollice finché un giorno non vede scaturirne una goccia d’olio. Ecco, allora, A ghe semu, a l’è l’ua!, dicono, “Ci siamo, è l’ora, è l’ora di battere”. E così si chiamano tutti in famiglia: fratelli, zii, nonni, cugini e si va a “batte“, a raccogliere le olive. Sotto gli alberi si mettono le reti. È per questo che da inizio ottobre vedrete tutte le colline nella provincia di Imperia quadrettate di tele colorate, perché si aspetta l’arrivo di questa manna dai rami: le olive. La nostra protagonista è una di quelle spuntate sul versante orientale della valle, nella zona vicino a Castellaro, a ridosso del campo golf. È una delle tante prodotte dalle circa trecento piante dell’azienda Nuvolone, proprietaria del frantoio posto a Taggia proprio all’imbocco del famoso ponte romanico. Questa è la sua storia e anche quella del Frantoio Nuvolone, che da anni è uno dei punti di riferimento per l’olio extravergine d’oliva a Taggia. Ce la racconta Gianfranco Arnaldi, 65 anni, che, in 50 anni di lavoro al frantoio, di olive ne ha conosciute tante tante, chissà quante, milioni di milioni. “Ho cominciato molti anni fa, prima c’era mio zio, poi mio nonno, finché non sono andato in pensione e ho potuto dedicarmi al frantoio al 100 %, assieme a mio fratello Cristiano che si occupa dell’amministrazione.” Oggi al Frantoio Nuvolone frangono le loro olive e anche quelle di chi, privatamente, raccoglie le proprie e le porta a loro per ottenere il proprio olio. Perché è così che funziona: “Si stendono le reti e poi si “battono” gli alberi. Una volta si usavano delle lunghe pertiche di castagno, oggi esistono sistemi meccanici che rispettano la pianta. Le olive cadono a frotte. Un tempo venivano a raccoglierle, a mano, le “Sciascieline”, ragazze stagionali che per lo più arrivavano da Sassello, da lì il loro soprannome. Ma oggi si usano reti di nylon. Le olive raccolte si chiudono poi in sacchi di iuta e si portano al frangere, si dice così. Il frantoio funziona su prenotazione: i nostri clienti arrivano all’ora stabilita, ci affidano le loro olive, aspettano un’oretta e intanto osservano la lavorazione. Poi ritirano le loro olio taniche d’olio nuovo e vanno via. Non mescoliamo le olive: scriviamo il nome di ognuno su una lavagnetta. C’è chi fa tutto in una volta, chi in due, chi anche dieci, a seconda di quanti alberi possiede. Noi abbiamo circa 500 clienti, non solo di Taggia e di tutta la Valle Argentina, ma anche di Coldirodi, del Poggio di Sanremo e di Bussana. Per le nostre olive o per quelle che coltiviamo in comodato, invece, a andiamo a ruota libera. Ogni giorno facciamo 30 – 32 partite di olive considerando che oltre i 5 quintali, ne facciamo due, per una resa da 16 – 18 kg d’olio per quintale d’olive.” I sacchi che contengono le olive sono bellissimi, fanno sempre una gran scena, contengono mesi di attesa, notti di speranza e giorni di fatica. Assomigliano (e a volte sono proprio gli stessi) a quelli che trasportano i chicchi di caffè in Sudamerica, in Brasile o in Costarica. Pesano 25 – 30 chili l’uno. Davanti al frantoio il via vai è continuo: un’auto si ferma e scarica i sacchi; gli operai svuotano il loro prezioso contenuto in alcuni cassoni. E via subito un’altra. I sacchi verranno lavati e poi riposti all’asciutto fino all’autunno successivo. “Un tempo esisteva una unità di misura che molti usano tuttora. Le olive si misurano a “quarta”. La quarta è un secchio in ferro con altezza di 30,4 cm ed un diametro di 31 cm, utilizzato un tempo perché non tutti disponevano di una bilancia. La Quarta è un “doppio decalitro”, (circa 20 litri) che tiene circa 12, 5 chili di olive. Si riempiva il secchio e poi con un bastone si tracimavano le olive in eccesso. È piuttosto ingombrante. Non a caso, nel nostro dialetto c’è l’espressione: “Ti l’hai a testa cume ina quarta” per indicare qualcuno particolarmente duro di comprendonio. Con dieci quarte (circa 125 kg) fai una “Gumbà”, che, di solito, è la quantità minima di olive da portare in frantoio. Altro discorso è poi la resa, cioè il rapporto fra chilogrammi di olio prodotto per i chilogrammi di olive. Molti, con snobismo quasi anglosassone, preferiscono usare ancora le quarte e si parla di chili d’olio prodotto diviso il numero di quarte di olive molite”. Comunque, Gianfranco mi fa capire che la vera differenza, nella resa delle olive, la fa la zona in cui sono coltivate: “Le zone più assolate, i versanti più esposti al sole e a mezza altezza sul mare. L’olio prodotto da olive sopra i 300 metri di altezza è più acerbo e quindi più fruttato e dura di più, mentre per le zone costiere noi diciamo che “l’öiu nu l’ha nervu”, cioè l’olio è più debole, si spoglia prima, dura meno. Il miglior olio della provincia di Imperia è probabilmente quello prodotto a Baiardo, con 0.5 – 0,6 linee di acidità. L’olio fino a 1 – 1,5 gradi è commestibile, oltre noi diciamo che è “lampante”, cioè buono per gli stoppini delle lampade.” “Un uliveto “all’apröu“, cioè al sole, rende molto di più che uno “all’ubagü”, all’ombra…” Gianfranco Arnaldi Poi Gianfranco mi apre la porta del cuore del frantoio, la parte dove avviene la molitura. C’è un rumore d’inferno, pare d’essere all’Italsider. Ma l’odore è diverso: comincia ad arrivare l’afrore, l’aroma fluorescente dell’olio nuovo. Il pavimento è scivoloso, si sta a malapena in piedi, ma c’è un viavai continuo dei ragazzi che lavorano alle olive. “Prima le pesiamo e le mettiamo nel defogliatore, noi ne abbiamo uno doppio, che sottrae tutta la parte di foglie accumulate nella raccolta. Poi vanno nella lavatrice che le lava e le asciuga. Solo allora sono pronte per andare in lavorazione in frantoio. Noi abbiamo mantenuto la lavorazione a freddo, quella tradizionale con la ruota, la mola, che ha il compito di rompere l’oliva. Restano lì per 5 – 10 minuti, a seconda della quantità e poi la pasta viene mandata ad un finitore, un macinino che finisce la tritatura. Sì, lo so: sembra una di quelle complicate macchine progettate da Archimede Pitagorico nelle pagine di Topolino, ma il funzionamento di un frantoio è il risultato dell’affinamento di tecniche millenarie che oggi hanno raggiunto un livello ragguardevole come resa e qualità. “Un tempo gli “spurtìn” – racconta Gianfranco che ha ben presenti gli anni della tradizione – “che erano particolari ciambelle in canapa in cui si inseriva la sansa di olive e poi si mettevano sotto presse idrauliche. Ma sono stati superati per questioni di igiene e… anche per risparmiare a noi il mal di schiena!” “L’annata è meno che discreta, cioè più che sufficiente, ma non eccezionale. Quest’anno è un anno molto particolare: sembrava andasse tutto bene, le olive maturavano, ma poi il caldo ha colpito le fioriture, una grandinata ha colpito una striscia tra Badalucco, a Ceriana, a Beuzi, è stata devastante e ha rovinato le olive già formate; infine c’è sempre qualche parassita, stavolta è qualcosa di strano, non è la solita mosca. C’è chi dice una cosa, chi dice un’altra: secondo me è semplicemente un’annata no. Oggi tanti curano le olive e ce ne sono abbastanza tutti gli anni: da due settimane noi lavoriamo a pieno regime, 8 – 10 ore di continuo tutti i giorni”. Alla fine del lungo marchingegno del frantoio ritrovo la nostra amica oliva. Mentre vado via, arriva un signore anziano. Parcheggia la sua Panda targata IM sul marciapiede, a due passi porta dal frantoio. Non ce la fa da solo a scaricare i sacchi di iuta con le sue olive. Arriva un ragazzo e lo aiuta.
Piccole e nere come le pupille dei bambini di queste zone, le olive hanno visto passare di tutto: imperi, governi, alluvioni, eserciti, epidemie. Hanno salutato Napoleone, udito schioppettate nella II G.M., seguito la costruzione dell’autostrada, addirittura sentito i “Jalisse” vincere al Festival. E sono ancora lì.
Pazienti, tenaci, “resilienti” (oggi va di moda, ma qui lo si è da anni), dai tempi dei monaci gli ulivi ne hanno fatto di strada: sono cresciuti e hanno conquistato tutto il Ponente Ligure ne sono diventati il il simbolo. Oggi anche loro devono fare i conti con le malattie e il cambiamento climatico, ma a Taggia sono dappertutto. Provate a guardare giù dal grande viadotto dell’A10: vedrete la civiltà degli ulivi.Il Frantoio Nuvolone a Taggia
Gianfranco, quando hai iniziato?
Incontriamo Gianfranco in un frantoio di Taggia un giovedì mattina di ottobre: è un po’ come trovarsi il giorno di Ferragosto al Terminal Traghetti a Genova o all’ora di punta alla stazione Principe. C’è un traffico incredibile di gente. Chi è venuto a frangere le sue olive e aspetta il suo turno. Chi viene a comprare una bottiglia d’olio novello, chi olive in salamoia, paté d’olive, funghi, pomodori secchi o qualcuno dei tanti prodotti del frantoio. Chi, curioso, si ferma per fare due parole sull’annata.
Il frantoio Nuvolone esiste nel 1945, da quando, dopo la II Guerra Mondiale, Domenico Nuvolone, che aveva fatto il telegrafista sulle navi commerciali e lavorato anche in alberghi di Genova e Milano pensò di sfruttare le sue numerose conoscenze – dottori, giudici e avvocati importanti che amavano la buona tavola – per fornire loro prodotti di ottima qualità, lontani dalla grande distribuzione. L’azienda è poi passata al figlio Pietro e oggi a Gianfranco e Cristiano Arnaldi, ultimi eredi di una famiglia di “defiziei”, come chiamano a Taggia i frantoiani.Come funziona un frantoio? E le olive, come si raccolgono dagli alberi?
È adesso che si incontra nuovamente la tradizione. Perchè le olive non si misurano mica in quintali: a Taggia hanno le loro unità di misura…
Ah. Ora mi è tutto chiaro. Sono cresciuto a Taggia: quante volte, mentre mi spiegavano matematica, mi hanno detto “Ti l’hai a testa cume ina quarta”. Ma allora, ragazzino ingenuo, pensavo fossi già da promuovere in quarta e credevo fosse un complimento… invece.
“Un posto “all’apröu”, al sole può rendere 2 chili e mezzo di olio alla quarta, mentre un posto “all’ubagü”, cioè all’ombra, più di due non farà…Quali sono le zone con le olive migliori?
Le zone con l’olio migliore Taggia hanno nomi famosi nel borgo, nemmeno fossero ristoranti gourmet: avere un uliveto ai “Tuvi”, alle “Ferraie” o incerte zone di “Beuzì” spalancherebbe le porte di qualsiasi frantoio. Gianfranco, tra le tante, mi dice che l’azienda Nuvolone ne coltiva alcune a Castellaro in zona “Marchesina”, sulla strada per Pompeiana, una bella zona, con il sole dal mattino alla sera. Me lo segno per una passeggiata.Entriamo nel cuore del frantoio…
Successivamente si passa alla gramolatura: un processo molto importante che rompe l’emulsione acqua-olio della frangitura e riunisce tutte le goccioline di olio mosto in gocce più grandi mantenendo la pasta sempre in movimento con delle spirali. Con la gramolatura si ha una resa maggiore. Dalla gramola si passa all’estrattore centrifugo che ha il compito di dividere il solido dal liquido quindi si elimina l’acqua e la sansa, il residuo solido che viene poi riutilizzato per il riscaldamento. Da qui l’olio subisce un’ultima lavorazione: è la centrifuga che elimina gli ultimi residui d’acqua”.Com’è l’annata quest’anno?
All’interno del Frantoio Nuvolone
È diventata liquida, luminosa, profuma di verde. Se si potesse odorare un colore, il verde avrebbe quel profumo.
L’olio appena nato esce da un rubinetto d’alluminio: una delle ragazze del frantoio lo apre e usa un “turtaieu”, un grosso imbuto, per riempiie una tanica. Fuori, oltre la porta del frantoio, ad attenderlo come in una nursery, c’è una signora che lo aspetta impaziente.
Ecco, questa è l’immagine del ponente ligure nel mese di ottobre: una Pandina targata “IM”, carica di sacchi di olive.