Franco Malerba: il primo italiano (e ligure) a conquistare lo spazio
Terra di naviganti, papi, mercanti e… astronauti, la Liguria ha un rapporto speciale con il cielo. E vanta un primato storico a livello nazionale: aver dato i natali al primo italiano ad aver viaggiato nello spazio, Franco Malerba
La Liguria è una piccola striscia di terra con un grande mare davanti e un cielo infinito sopra. I liguri sono abituati a partire: e le loro navi (o navicelle) chissà dove possono arrivare… ma prima o poi, presto o tardi tornano, dopo aver cercato la propria terra ovunque siano stati. Perché a pensarci, quando c’è di mezzo un nuovo ambiente da esplorare (e qualcosa da scoprire) c’è sempre di mezzo un ligure.
Colombo, Mazzini, Garibaldi, Calvino: sono tanti i liguri che, partiti dalla loro terra sono arrivati lontano. Per la Giornata internazionale dei viaggi dell’uomo nello spazio del 12 aprile possiamo aggiungerne uno, Franco Malerba, il primo italiano (e primo ligure) a compiere un viaggio nello spazio. Nato a Busalla, in valle Scrivia, nel 1946, fu tra i primi a laurearsi in ingegneria elettronica all’Università di Genova con una tesi sull’olografia acustica.
Volato negli States dopo le prime esperienze in Liguria nel mondo della biofisica, proseguì i propri studi al National Institutes of Health di Bethesda, nel Maryland. In breve tempo, però, il richiamo dello spazio si è fatto sempre più forte nel cuore di Malerba, spingendolo a candidarsi alla prima selezione di astronauti dell’ESA, Agenzia Spaziale Europea, nel 1977. Nonostante l’ottimo piazzamento, 4° posto su migliaia di aspiranti, i tempi non erano maturi e l’astronauta ligure dovette aspettare il 1992 per prendere il volo a bordo dello shuttle Atlantis. Tutto il resto è storia…
Verso l’infinito e oltre con Franco Malerba
Arrivati a questo punto, passiamo i comandi al pioniere ligure dello spazio per saperne di più sul suo viaggio e sul futuro delle coltivazioni in orbita. Franco Malerba è infatti socio fondatore di una startup, spinoff dell’Università degli Studi di Genova, di nome Space V e specializzata nella progettazione di serre verticali “adattive” insieme ad ASI (Agenzia Spaziale Italiana) ed ESA.
Three, two, one… Allacciate le cinture, si parte!
Franco Malerba, cosa ha significato per lei essere il primo italiano (e ligure) della storia ad aver viaggiato nello spazio?
Certo questo ruolo importante nella storia della ricerca e dell’industria italiana ha segnato una tappa molto importante della mia vita, che ancora mi dà energia progettuale oggi nonostante l’avanzare degli anni. Il 1992 si ricorda nella storia d’Italia come l’annus horribilis degli attentati mafiosi ai giudici Falcone e Borsellino; la mia missione nell’agosto di quell’anno fu un breve momento di orgoglio nazionale, quasi come la vittoria di Bartali al tour de France nel ’48. A Genova si celebravano le colombiane ed io portai fieramente a bordo il gagliardetto della nostra festa. Vittorio Gassman scrisse sul Secolo XIX un pezzo di prima pagina del “nuovo Colombo”.
Cosa si prova a vedere per la prima volta la Terra dallo spazio?
A bordo di una stazione in orbita terrestre bassa, il giorno dura quarantacinque minuti e quarantacinque minuti la notte, si fa un giro della Terra in novanta minuti. Dagli oblò del nostro Nautilus si abbraccia il pianeta con un solo sguardo, una grande sfera variopinta, luminosissima, che gira sotto di noi. Anche noi giriamo e mentre nel cielo cambia continuamente l’orientamento delle costellazioni, osserviamo sulla Terra nuove pagine dell’Atlante, una dopo l’altra: dal Golfo del Messico, dove c’è il nostro centro di controllo alla costa della Florida da dove siamo partiti, poi il deserto del Sahara, i fiumi della Mesopotamia e il Mar Morto; sorvoliamo nel buio il Tibet e il Pacifico e finalmente, con il sorgere del Sole, ecco le coste del Messico e la baia di San Francisco. L’emozione è anco più grande quando si sorvola la zona notte della Terra perché si vedono brillare le luci delle città e si ha il senso della presenza dell’uomo sul pianeta Terra.
Come e per quanto tempo ci si prepara ad un viaggio così lungo?
La mia preparazione di addetto al carico scientifico ha richiesto tre anni, ma faceva leva sull’esperienza già maturata nei banchi universitari e nei laboratori di terra. La preparazione ad una missione comporta fondamentalmente tre capitoli: 1) conoscere bene la nave su cui si viaggia e i sistemi di cui si farà uso; 2) conoscere a fondo gli obiettivi scientifici e gli strumenti particolari che si useranno per realizzare quella missione; 3) allenarsi a fronteggiare tutte le anomalie ed emergenze che potrebbero manifestarsi nel corso della missione.
Si fanno esercitazioni di sopravvivenza in diverse situazioni di emergenza e si investe molto tempo sull’esecuzione dei compiti specifici della missione, perché operare nello spazio, con apparecchiature, applicazioni e obiettivi scientifici sempre diversi richiede allenamento continuo anche alle avarie e ai malfunzionamenti, come in ogni impresa sperimentale.
Come fa l’uomo a sopravvivere nello spazio?
L’uomo (o la donna) resta se stesso anche nello spazio con tutte le esigenze del vivere sulla Terra. Ha bisogno quindi di un ambiente artificiale in cui ritrova aria, cibo e servizi vari. Le stazioni spaziali offrono un ambiente pressurizzato e termostatato come la cabina di un aereo. La grande singolarità è l’assenza di peso, il fatto di galleggiare, a cui ci si abitua abbastanza rapidamente. Però l’assenza di peso non fa bene e nel tempo si perde tono muscolare e massa ossea. C’è pure una maggiore densità di radiazioni ionizzanti da cui non si sa ancora come proteggersi efficacemente; ma si studia.
Cosa mangiano gli astronauti in missione? E com’è cambiata la loro alimentazione dal ’92 a oggi?
È consegnato al museo dello spazio il corredo alimentare dei primi astronauti, fatto di concentrati calorici liofilizzati in tubetti-tipo-dentifricio; quei cibi poco appetibili appartenevano a missioni relativamente brevi, ove la priorità assoluta era la gestione dei rischi, senza neppure il conforto di un vero gabinetto. Grandi progressi ha fatto l’alimentazione degli astronauti nell’arco degli ultimi 40 anni attraverso l’esperienza delle missioni dello Space Shuttle e della Stazione Spaziale ISS; per le missioni di lunga durata gli astronauti della Stazione hanno oggi a disposizione un cibo vario, assortito al loro gusto e confezionato a terra con il sapiente contributo di chef stellati; mancano però gli ortaggi freschi, mancano ancora nel menu standard della Stazione una fresca insalata di lattuga e pomodori, una fresca caprese, un pinzimonio. Le missioni abitate più distanti, verso la Luna in questa decade e forse verso Marte poi sono la nuova frontiera; il successo di tali missioni sarà subordinato alla messa a punto di produzioni di cibo “in situ” autosufficienti, per la salute e il benessere, sia fisico che psicologico, degli astronauti.
Parlando di piante coltivate nello spazio, quali riescono a sopravvivere?
L’esperienza sulla biologia delle piante su Skylab, Spacelab e sulla Stazione spaziale ci confermano che le piante si sviluppano anche in assenza di peso: l’apparato radicale cerca l’umidità e l’apparato fogliare cerca la luce. Sulla Luna poi un po’ di gravità c’è e nei piani di esplorazione delle Agenzie spaziali c’è appunto il ritorno alla Luna per impiantarvi basi abitate permanenti e c’è in prospettiva più lontana anche il viaggio dell’Uomo verso Marte; in questi scenari il tema “cibo fresco nello spazio” diventa una materia di vitale importanza.
L’astronauta del futuro sarà dunque anche agricoltore e sarà sostanzialmente vegetariano. Le piante che si coltiveranno di preferenza sono a basso fusto e a rapida crescita perché saranno coltivate in serra. Con le serre spaziali si dovrà ricreare artificialmente un ecosistema che imita l’ambiente terrestre, ove le piante producono cibo e ossigeno per gli astronauti e questi ricambiano producendo anidride carbonica e rifiuti fertilizzanti. Queste sperimentazioni produrranno tecniche utili anche per l’agricoltura a terra.
Tra le verdure che rivestono un particolare interesse per la coltivazione nello spazio occupano un posto di eccellenza i micro-ortaggi. Questi sono essenzialmente giovani piante raccolte prima che arrivino a completo sviluppo; sono ricchi di elementi nutrienti, di antiossidanti in concentrazione anche decine di volte più alta rispetto ai comuni ortaggi. Sono piantine aromatiche di specie orticole, ma anche erbacee, raccolte subito dopo che le foglie di cotiledone sono completamente sviluppate e sono apparse le primissime foglie vere, dunque prima che la pianta sia veramente matura e produca più foglie. È una nuova categoria di ortaggi, caratterizzata da un ciclo di crescita molto breve, che consente un raccolto da una a tre settimane dopo la semina; hanno dimensioni inferiori a 10 centimetri, compreso lo stelo e le foglie; lo stelo viene tagliato appena sopra la linea del suolo durante la raccolta. I micro-ortaggi sono usati anche sulla Terra da alcuni chef stellati per i loro piatti di grande cucina.
E tra queste, rientra anche il basilico?
Certo anche il basilico potrebbe essere coltivato nello spazio, non ho dubbi.
A tal proposito, com’è nata l’idea della startup Space V e cosa propone?
Space V (dove V sta per vegetables) nasce come spin-off dell’Università di Genova. Propone una soluzione innovativa per la coltivazione nello spazio: una serra brevettata chiamata Adaptive Vertical Farm (AVF), in grado di adattare il volume disponibile per le piante in base al loro livello di crescita, massimizzando l’efficienza in ambienti ristretti e riducendo il consumo energetico. Nell’ambiente di una stazione spaziale, in volo o sul suolo lunare o marziano deve occupare il minor volume possibile per ridurre il consumo di energia di climatizzazione, di acqua e di altre risorse; deve essere efficientissima. Deve possibilmente consentire di coltivare contemporaneamente diverse varietà di ortaggi, senza produrre contaminazioni, funzionare in modo sicuro e piuttosto automatico. Possibilmente dovrebbe anche riciclare rifiuti organici sotto forma di fertilizzante.
Prima conseguenza del risparmio di volumi, la serra spaziale deve essere multipiano. Esistono da tempo serre multipiano verticali terrestri dotate di ripiani ad altezze fisse che accolgono le coltivazioni, dal seme alla raccolta. La serra verticale di Space V adatta progressivamente ed automaticamente il volume disponibile per ogni ripiano di coltivazione in base al livello di crescita delle piante. Si ottengono così rese superiori del 100% rispetto alla serra a ripiani fissi. L’idea nasce da un brevetto che fu messo a punto da un’altra startup genovese, Germina, che ha successivamente generato Space V affinché questa sviluppi l’offerta di serre adattive per lo spazio. Fondata nel 2021, Space V è stata accolta nell’incubatore di imprese dell’ESA a Torino e nel 2023 è stata scelta da Galaxia – un fondo di CDP – per un investimento “pre-SEED”. Ha vinto bandi di ricerca e sviluppo presso ASI ed ESA.
Che ruolo possono giocare le coltivazioni di piante nutrienti e salutistiche in habitat spaziali per la sopravvivenza dell’uomo e del nostro pianeta?
Sappiamo fin dai primi anni di scuola che le piante ci sono amiche perché dalla luce producono zuccheri e carboidrati con la fotosintesi clorofilliana; sfruttando l’energia del Sole assorbono CO2 dall’atmosfera e producono cibo e Ossigeno, indispensabili entrambi a noi, alla vita del regno animale. Sono le piante ad aver “terraformato” il nostro pianeta, miliardi di anni fa e creato l’habitat nel quale viviamo. Questo ruolo delle piante, generatrici di vita, non è che il primo loro benefico contributo; in verità le piante sono in grado di elaborate una quantità incredibile di nuove sostanze a noi utili, sono un vero laboratorio chimico (si stima che le molecole prodotte dalle piante siano più di 200.000) che ha ispirato farmacopee sperimentali in ogni epoca e in ogni contrada.
È mai riuscito a vedere Busalla e la Liguria dallo spazio?
Il nostro Shuttle viaggiava su un piano orbitale vicino al piano dell’Equatore della Terra, ad una latitudine molto “bassa” per cui non avevamo la miglior vista dell’Italia, ma si distingueva molto bene il pennacchio dell’Etna.
È più bello partire per lo spazio o ritornare sulla Terra?
Partire è assai emozionante, la tensione molto alta perché “montagna difficile da scalare” è tutta da scoprire. Il ritorno è più festoso anche se “molto caldo”.